L’ESPLOSIONE DELLA POLVERIERA DI STIFONE DEL 1861
Nel settembre 1860 l’Umbria passava dallo Stato Pontificio al Regno di Sardegna, sotto Vittorio Emanuele II.
Nel 1859 cominciarono i lavori per la costruzione della ferrovia Roma – Ancona, passante per l’Umbria, appaltati alla società Ferrovie Romane, a capitale prevalentemente francese. Il tronco Orte – Terni fu affidato alla direzione del giovane imprenditore Candido Valli, che nacque a Narni nel 1835 e la cui testimonianza è alla base della storia che qui vogliamo narrare. Nel periodo in cui i lavori erano concentrati nel tratto da San Liberato a Narni, ci fu una terribile esplosione a Stifone, nella piazza dove oggi sorge la chiesa di Santa Marina, ove un edificio, di proprietà della famiglia Silori, ma condotto in affitto da un cottimista francese, tal Lelarge, che aveva in appalto alcune trincee che dovevano essere aperte sul Monte Santa Croce, dal lato destro del fiume Nera, per la costruzione della ferrovia, esplose.
Dal racconto di Candido Valli:
«Madame Lelarge, moglie del cottimista, conduceva con molta abilità il magazzino viveri per gli operai addetti ai lavori del marito e, separata dal magazzino, ma nella stessa casa, una camera serviva da trattoria per gli ingegneri e impiegati dei lavori, che, attirati dall’ottima cucina e dai modi gentili di Madame Lelarge, vi accorrevano con entusiasmo.
Nella stessa casa vi era un magazzino per gli attrezzi ad uso dei minatori e un deposito di polvere e di miccia inglese per le mine. Alla mezzanotte tra il 22 e il 23 gennaio 1861, un mio canneggiatore1 di Stifone giunse a Narni trafelato, recandomi la triste notizia che la polveriera di Lelarge era esplosa e Stifone era tutta una rovina!
Mi vestii in un attimo e dopo un’ora mi trovai sul luogo. Vi giunsi, solo, in un’oscurità perfetta: un silenzio mortale regnava nel paese e l’ingresso era sbarrato dalle macerie dei muri crollati. Mi inoltrai alla meglio camminando a tentoni con le mani e con i piedi; ad un certo punto sento una cosa soffice: la tocco con attenzione ed era un uomo, un cadavere certo adagiato lì dai canneggiatori, che si aggiravano per apprestare i primi soccorsi. Tra quelle tenebre, camminando sempre sui mucchi di pietre, scorsi finalmente un finestrino di una casetta fiocamente illuminato, che sapevo abitata da un fabbro ferraio con la moglie. Mi diressi colà: la porta era aperta, salii la scala e, al debole chiarore del fuoco, mi si offrì allo sguardo una scena straziante. Dinanzi al focolare giaceva supino, con le braccia aperte, il cadavere del fabbro ferraio. Vicino a lui in un giaciglio molto basso era seduta la moglie tramortita, mentre il bambino attaccato al petto della madre poppava tranquillamente. Riavutomi dalla raccapricciante impressione, scesi correndo la scala, impaziente di vedere qualche altra anima viva, ma circolare era assolutamente impossibile poiché tutte le strade erano ingombre di macerie; chiamai, gridai: nessuno! Finalmente, vidi un chiarore che usciva da una porta: erano Carletto e gli altri canneggiatori che con le torce a vento ritornavano dall’avere accompagnato in quella casa il Lalarge trovato vivo e quasi illeso, ma inebetito con gli occhi vitrei sbarrati. Appena mi ebbe riconosciuto, incominciò ad emettere grida supplichevoli e strazianti e a dire con le mani giunte parole incomprensibili. La signora Lelarge era stata già estratta dalle macerie e il suo cadavere giaceva supino in un angolo della piazzetta. Dopo pochi passi, procedendo con difficoltà al lume delle torce, ci colpì il gemito di una voce profonda somigliante a quella di un vitello e uscente da un gran mucchio di sassi. Ci dirigiamo colà e vediamo che da quelle pietre uscivano due piedi, calzati con grossi stivali, uno dei quali si agitava lentamente. Era un uomo sepolto ma ancora vivo. Si incominciò subito a liberare dai sassi quelle gambe e, con febbrile attività, si arrivò a scoprire il corpo dell’infelice, tentando di estrarlo tirandolo per le gambe e per i vestiti. Ad un certo punto l’uomo, con le spalle e la testa ancora sepolte, con una voce da basso profondo, gridò: «Non strappatemi la giacchetta!». «È vivo!», tutti esclamarono e in pochi minuti era liberato completamente: ma, Dio mio in quale stato! Era un abruzzese di robustezza erculea, che si trovava sepolto sotto i sassi da circa due ore e mezzo; aveva la testa coperta di ferite, il viso deformato, lacero e tutto macchiato di sangue rappreso.
Gli abitanti di Stifone incominciavano ad uscire dalle loro case. Feci chiamare il parroco, che ancora non si era fatto vivo, e gli intimai di aprire la chiesa2. Il primo ad esservi trasportato fu l’abruzzese vivo, quindi uno per volta i cadaveri già disseppelliti, poi quelli che si scoprirono in seguito e finalmente i mobili e gli utensili e tutto quanto si rinveniva man mano che si cercava tra le macerie. La chiesa in poche ore era divenuta un caos, tutta ingombra di morti, di feriti, di letti, eccetera, cosa che faceva fremere il parroco, che ingiuriava tutti e trattava me da prepotente e da profanatore. All’alba arrivò il delegato di pubblica sicurezza, certo signor Nicolai, il primo che ricoprì quella carica a Narni dopo il cambiamento di governo3. Lo accompagnava un suo dipendente, che fu subito destinato a sorvegliare i feriti e gli oggetti che venivano trasportati nella chiesa, mentre il delegato prese a dirigere il lavoro di ricerca fra le macerie, che durò vari giorni e a far seppellire i morti nella chiesa sempre con la disperazione dell’ex frate, il quale sbraitava e si lamentava di non avere, con tutti quei morti, toccato il becco di un quattrino.»
Qui termina il racconto di Candido Valli, che fu testimone diretto degli effetti dell’esplosione4.
In seguito fu accertato che l’esplosione avvenne poiché alcuni ragazzi addetti al trasporto della polvere da sparo occorrente nelle trincee, si recavano nel magazzino dei Lelarge e nel caricarla in recipienti, che poi si mettevano a tracolla insieme ad alcuni metri di miccia, per trasportarla – attraversando il Ponte della Contessa – sul Monte Santa Croce, ne lasciavano distrattamente cadere un po’ sul pavimento, tanto che alla fine si era formato uno spesso strato di polvere infiammabile molto solido che evidentemente non veniva periodicamente rimosso. In quella sera fatale, probabilmente, alcuni pezzi di brace sono caduti da uno scaldino, innescando con il calore la miccia e facendo sì che la polvere rapidamente prendesse fuoco e arrivasse al deposito principale – dove c’erano, sembra, almeno 800 kg di polvere – facendo saltare in aria il tetto dell’edificio che poi ricadde in una pioggia di travi, travette, filagne, travicelli, coppi e tegole, che investì gran parte del paese. Le vittime furono, secondo la maggioranza dei testi, una dozzina. Molto lentamente, negli anni successivi, si avviò la ricostruzione del paese. Si narra che alcuni gomitoli di refe fossero rotolati per terra in seguito all’esplosione e che in uno di essi fosse trovato un marengo d’oro; ciò creò una vera e propria corsa al gomitolo con tanti paesani che, invece di soccorrere le vittime, andavano alla disperata ricerca di altri gomitoli. Questo episodio quasi comico, all’interno di un fatto davvero tragico, viene raccontato da vari cronachisti, ma non sappiamo se il fatto abbia o meno una validità storica5.
1 Per canneggiatore si intendeva un assistente di cantiere che, oltre ad aiutare nelle misurazioni, utilizzando delle canne, svolgeva anche altre attività di supporto al capo cantiere.
2 In quegli anni la parrocchia di Stifone era la piccola chiesa di Sant’Angelo, oggi completamente distrutta, che si trovava nella parte Est del piccolo paese
3 Nel 1860, con un decreto governativo del 12 settembre, l’Umbria passava dallo Stato Pontificio al Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II, che sarà poi proclamato Re d’Italia il 17 marzo 1861.
4 Candido Valli, Nascita delle ferrovie italiane 1860-1890, Edizioni Thyrus, 2009
5 Antonietta Pacchelli Silori, Ricordi di gioventù, Etas edizioni, 1955